Il concetto di
bene culturale è in costante trasformazione da decenni. Averne consapevolezza
significa porsi una serie di interrogativi che investono direttamente aspetti
fondamentali della vita delle popolazioni, dell'assetto dei territori, delle
finalità dell'intervento pubblico. Si tratta di un passaggio decisivo e
inderogabile per scrutare le prospettive di un settore, quello legato al
patrimonio culturale, che oggi più di ieri presenta aspetti di forte criticità,
e un ambito di studio a dir poco composito. All'interno del quale lo stesso
progresso della strumentazione legislativa non può non venire riferito
all'evoluzione della disciplina, al campo semantico della sua definizione, alle
innovazioni metodologiche, e al valore normativo che inevitabilmente finisce
per scaturirne. Dal punto di vista dei mezzi e degli obiettivi sia di studio e
ricerca, sia di elaborazione di progetti e prospettive di governo e di
intervento, nel settore dei beni culturali l'aspetto delle definizioni vincola
e condiziona l'orizzonte delle scelte. Di questo connubio quasi mai si tiene
conto, né se ne valutano, cercando di prevederle, le conseguenze.
Il testo della
Convenzione di Faro (2005) ratificato dall'Italia nel febbraio '13, recependo
la definizione anglosassone di “eredità culturale”, e collegandola a quella di
“comunità”, introduce un significativo mutamento terminologico rispetto alle
formulazioni presenti nel vigente Codice dei Beni Culturali. Da questo
aggiornamento, che a ben guardare è un ampliamento non irrilevante della
prospettiva, potrebbero (e dovrebbero) in un futuro si spera non tanto remoto
discendere non marginali revisioni giuridiche e normative. Le quali andrebbero
a intervenire nell'ordinamento a distanza di molto tempo da quando la dicitura
“bene culturale” vi è penetrata negli anni '60, tra l'altro ambiguamente perché
non in una norma ma nelle dichiarazioni di una commissione parlamentare (e solo
dal 2004 anni recepita nel testo del Codice).
Ma, dopo
cinquant'anni, cosa ne è del lascito di quello che pure all'epoca apparve come
un traguardo? Quali gli effetti storicamente da quel momento determinatisi e la
loro attuale portata? Non si può non essere critici verso lo stato delle cose,
anche nel settore della ricerca accademica, se si cerca la chiave per cogliere
le future probabili evoluzioni, nella sfera decisiva del diritto e delle
istituzioni, di tutto ciò che è legato al patrimonio e all'eredità culturale.
Le parole utilizzate disciplinano e indirizzano le azioni che vengono
realizzate, e l'individuazione e la verifica dei risultati che se ne aspettano.
Si tratta nella fattispecie di politica, o di politiche, che vivono però dentro
una dimensione comprensiva, di reciproco condizionamento, col settore della
produzione scientifica e analitica. Ciò che questa continuamente espone e
aggiorna si riverbera, senza soluzione di continuità, sul modo attraverso il
quale socialmente la materia di cui essa si occupa viene recepita.
Proprio in tale
zona di scambio, in questo snodo, risiede nel nostro paese uno dei fattori più
faticosi, difficili, di maggiore problematicità e opacità, tra quelli che
intervengono nella costruzione dello statuto specifico della disciplina che
studia i beni culturali. Questa, in tutte le sue articolazioni, ragiona e si
interroga intorno a materiali i quali, occupando fisicamente uno spazio,
costituiscono ipso facto delle persistenze volumetrico/territoriali, inserite a
pieno titolo dentro le dinamiche sociali, e di fatto sottoposte a un continuo
riposizionamento e mutamento delle loro condizioni di esperienza. Ovvero a una
continuo mutamento delle stesse possibilità di comprensione dei significati
originari o ulteriori di ogni singolo bene, e del valore non solo testimoniale
dell'intera rete dei beni sul territorio. A ben guardare, però, non può non
notarsi come proprio la valutazione delle implicazioni derivanti da questa
precondizione, che dovrebbe essere comune ai vari settori che si occupano di
beni culturali, e che attiene alla natura stessa dell'oggetto di studio, venga
spesso fraintesa, laddove non disattesa, o comunque non del tutto tenuta in
considerazione. La principale conseguenza del mancato radicamento di questa
cognizione, dagli esiti così compositi, attiene direttamente alla rilevanza
anche mediatica del dibattito, alla sua efficacia, e alla qualità generale
delle argomentazioni che vengono utilizzate quando si analizza il sistema dei
beni culturali. Da qui deriva, con ogni evidenza, quella sorta di scollamento
tra il linguaggio con cui si realizza il discorso sui beni culturali e gli
attori sociali che dovrebbero recepirne gli aspetti, anche quelli emergenziali,
che si tenta di evidenziare.
La soglia di
tale passaggio da una dimensione all'altra del linguaggio sui beni culturali,
delle modalità della sua concretizzazione, dovrebbe essere (e non è) il
territorio di una semina inesausta per provare a rifondare i presupposti di un
discorso che rischia continuamente di farsi esaurire in termini esclusivi o di
retorica, o di codice iniziatico. Dal momento che il valore sociale di ciò che
tramite esso viene esaminato, essendo incancellabile, risulta inevitabilmente e
pericolosamente minato e compromesso da un processo di impoverimento, di
cortocircuito, di mancata interlocuzione e condivisione semantica,
pericolosamente in atto ormai da decenni.
C'è necessità
di una diversa interrelazione tra l'aspetto terminologico, etimologico,
auto-definitorio, delle scienze che studiano i beni culturali, e la produzione
normativa e l'assetto istituzionale da cui vengono determinate le scelte
politiche in materia di salvaguardia e educazione al patrimonio e all'eredità
culturale. Urge una nuova consapevolezza, in questo senso del tutto politica,
finalmente scevra dalle «costrizioni materiali e morali di un paesaggio
culturale ad uso esclusivo di vieti stati d'animo turistici» (Pasquale Prunas,
editoriale di apertura del primo numero di Sud, 1945).
Un processo di
revisione fattuale, ostile alle formule delle più sedimentate e interessate
burocrazie cognitive, non potrà mai avere vita facile perché in esso è
contenuta una ineliminabile carica anti-sistemica. Ma proprio questo, per chi
intende lavorare con onestà di senso critico attorno ai beni culturali, si
staglia come l'indifferibile orizzonte di senso del proprio operare.