giovedì 2 gennaio 2014

Tra norma e ricerca: come (non) funziona il discorso sui beni culturali in Italia.



Il concetto di bene culturale è in costante trasformazione da decenni. Averne consapevolezza significa porsi una serie di interrogativi che investono direttamente aspetti fondamentali della vita delle popolazioni, dell'assetto dei territori, delle finalità dell'intervento pubblico. Si tratta di un passaggio decisivo e inderogabile per scrutare le prospettive di un settore, quello legato al patrimonio culturale, che oggi più di ieri presenta aspetti di forte criticità, e un ambito di studio a dir poco composito. All'interno del quale lo stesso progresso della strumentazione legislativa non può non venire riferito all'evoluzione della disciplina, al campo semantico della sua definizione, alle innovazioni metodologiche, e al valore normativo che inevitabilmente finisce per scaturirne. Dal punto di vista dei mezzi e degli obiettivi sia di studio e ricerca, sia di elaborazione di progetti e prospettive di governo e di intervento, nel settore dei beni culturali l'aspetto delle definizioni vincola e condiziona l'orizzonte delle scelte. Di questo connubio quasi mai si tiene conto, né se ne valutano, cercando di prevederle, le conseguenze.
Il testo della Convenzione di Faro (2005) ratificato dall'Italia nel febbraio '13, recependo la definizione anglosassone di “eredità culturale”, e collegandola a quella di “comunità”, introduce un significativo mutamento terminologico rispetto alle formulazioni presenti nel vigente Codice dei Beni Culturali. Da questo aggiornamento, che a ben guardare è un ampliamento non irrilevante della prospettiva, potrebbero (e dovrebbero) in un futuro si spera non tanto remoto discendere non marginali revisioni giuridiche e normative. Le quali andrebbero a intervenire nell'ordinamento a distanza di molto tempo da quando la dicitura “bene culturale” vi è penetrata negli anni '60, tra l'altro ambiguamente perché non in una norma ma nelle dichiarazioni di una commissione parlamentare (e solo dal 2004 anni recepita nel testo del Codice).
Ma, dopo cinquant'anni, cosa ne è del lascito di quello che pure all'epoca apparve come un traguardo? Quali gli effetti storicamente da quel momento determinatisi e la loro attuale portata? Non si può non essere critici verso lo stato delle cose, anche nel settore della ricerca accademica, se si cerca la chiave per cogliere le future probabili evoluzioni, nella sfera decisiva del diritto e delle istituzioni, di tutto ciò che è legato al patrimonio e all'eredità culturale. Le parole utilizzate disciplinano e indirizzano le azioni che vengono realizzate, e l'individuazione e la verifica dei risultati che se ne aspettano. Si tratta nella fattispecie di politica, o di politiche, che vivono però dentro una dimensione comprensiva, di reciproco condizionamento, col settore della produzione scientifica e analitica. Ciò che questa continuamente espone e aggiorna si riverbera, senza soluzione di continuità, sul modo attraverso il quale socialmente la materia di cui essa si occupa viene recepita.
Proprio in tale zona di scambio, in questo snodo, risiede nel nostro paese uno dei fattori più faticosi, difficili, di maggiore problematicità e opacità, tra quelli che intervengono nella costruzione dello statuto specifico della disciplina che studia i beni culturali. Questa, in tutte le sue articolazioni, ragiona e si interroga intorno a materiali i quali, occupando fisicamente uno spazio, costituiscono ipso facto delle persistenze volumetrico/territoriali, inserite a pieno titolo dentro le dinamiche sociali, e di fatto sottoposte a un continuo riposizionamento e mutamento delle loro condizioni di esperienza. Ovvero a una continuo mutamento delle stesse possibilità di comprensione dei significati originari o ulteriori di ogni singolo bene, e del valore non solo testimoniale dell'intera rete dei beni sul territorio. A ben guardare, però, non può non notarsi come proprio la valutazione delle implicazioni derivanti da questa precondizione, che dovrebbe essere comune ai vari settori che si occupano di beni culturali, e che attiene alla natura stessa dell'oggetto di studio, venga spesso fraintesa, laddove non disattesa, o comunque non del tutto tenuta in considerazione. La principale conseguenza del mancato radicamento di questa cognizione, dagli esiti così compositi, attiene direttamente alla rilevanza anche mediatica del dibattito, alla sua efficacia, e alla qualità generale delle argomentazioni che vengono utilizzate quando si analizza il sistema dei beni culturali. Da qui deriva, con ogni evidenza, quella sorta di scollamento tra il linguaggio con cui si realizza il discorso sui beni culturali e gli attori sociali che dovrebbero recepirne gli aspetti, anche quelli emergenziali, che si tenta di evidenziare.
La soglia di tale passaggio da una dimensione all'altra del linguaggio sui beni culturali, delle modalità della sua concretizzazione, dovrebbe essere (e non è) il territorio di una semina inesausta per provare a rifondare i presupposti di un discorso che rischia continuamente di farsi esaurire in termini esclusivi o di retorica, o di codice iniziatico. Dal momento che il valore sociale di ciò che tramite esso viene esaminato, essendo incancellabile, risulta inevitabilmente e pericolosamente minato e compromesso da un processo di impoverimento, di cortocircuito, di mancata interlocuzione e condivisione semantica, pericolosamente in atto ormai da decenni.

C'è necessità di una diversa interrelazione tra l'aspetto terminologico, etimologico, auto-definitorio, delle scienze che studiano i beni culturali, e la produzione normativa e l'assetto istituzionale da cui vengono determinate le scelte politiche in materia di salvaguardia e educazione al patrimonio e all'eredità culturale. Urge una nuova consapevolezza, in questo senso del tutto politica, finalmente scevra dalle «costrizioni materiali e morali di un paesaggio culturale ad uso esclusivo di vieti stati d'animo turistici» (Pasquale Prunas, editoriale di apertura del primo numero di Sud, 1945).
Un processo di revisione fattuale, ostile alle formule delle più sedimentate e interessate burocrazie cognitive, non potrà mai avere vita facile perché in esso è contenuta una ineliminabile carica anti-sistemica. Ma proprio questo, per chi intende lavorare con onestà di senso critico attorno ai beni culturali, si staglia come l'indifferibile orizzonte di senso del proprio operare.