Cito Panebianco dal Corriere di oggi,
perché la sua riflessione sulla defenestrazione di Bonino dal
ministero degli Esteri vale in realtà in modo drammaticamente uguale
per tutti gli altri dicasteri:
«Soprattutto,
quella sostituzione rivela una grave e preoccupante sottovalutazione,
da parte di Renzi, del rapporto fra politica e burocrazia. Se puoi
disporre di un ministro degli Esteri di vasta e vera competenza, ma
al suo posto metti una persona, magari eccellente, ma non altrettanto
esperta, vuol dire che stai deliberatamente consegnando la guida
politica del ministero alla burocrazia del medesimo. Per un bel po’
saranno gli alti gradi della Farnesina, non il ministro, a decidere
su tutti i dossier aperti». Ancora: «E c’è, infine, il problema
dei problemi: la burocrazia. Se non si sottomette il pachiderma, se
non gli si fa capire chi comanda, nessuna innovazione è possibile. E
il pachiderma è da tanto tempo abituato a schiacciare con le sue
zampe chiunque si faccia venire la bizzarra idea di comandarlo. Come
hanno scritto Alesina e Giavazzi (Corriere del 21 febbraio), o si
impongono cambiamenti nell’alta dirigenza dei ministeri o il
fallimento del governo è garantito» (paneibanco-renzi-velocista-pachiderma).
Utilizzo il medesimo paradigma per la situazione del Miur:
lo statuto e il profilo debole ai limiti dell'inconsistenza dei
ministri che si sono susseguiti (Gelmini docet, ma la lista da
Moratti in poi è a dir poco imbarazzante) sembra rispondere a un
criterio di selezione il cui solo scopo sia impedire la possibilità
che una qualsiasi visione, che sia culturale e non di mera becera
ottimizzazione economica, possa essere non dico strutturata, ma finanche concepita. Il problema non è
capire se esista un progetto del PD sull'istruzione e sulla ricerca
(quello della destra italiana clericofascista e delle élite
economiche è sempre stato piuttosto esplicito), quanto invece rendersi conto
che niente potrà essere realizzato di decente in termini di
innovazione, funzionalità e aumento del tasso di democrazia e merito
delle istituzioni scolastiche e accademiche, finché chi assume
responsabilità di governo non sia riconoscibile come qualcuno dotato
di una concezione complessiva sul ruolo del sapere e sul modo della
trasmissione di esso da una generazione all'altra. Che sia in grado di spiegarlo e farlo condividere, quindi di tracciare il
percorso, punto per punto, che intende seguire per realizzarlo. E che
conosca i vari dossier, sappia mettere ordine in e tra essi, e
assuma la responsabilità di un cambiamento non episodico né dettato
dall'esterno (riforma Gelmini, concorsone una tantum Profumo, ma
anche le strampalate dichiarazioni di Carrozza “scuolachevorrei”
sulla restituzione degli aumenti).
In mancanza
di questo, al Miur come ovunque, finisce per prevalere una metodologia di governo con l'obiettivo pressoché unico di mediare con i
tecnocrati del Mef (solo interesse: tagliare risorse) il modo della
prosecuzione del sistema attuale e quindi delle sue reti di gestione, a cui va ascritta quell'indistricabile continua produzione di
una messe di normative circolari direttive, che ingolfano la vita
delle scuole e delle università, e obbligano docenti e ricercatori e
alunni a burocratizzarsi e burocratizzare il loro lavoro, ovvero a
asservirsi a un sistema che tutto è, fuorché struttura di tensione
democratica, di partecipazione, di messa in circolo della conoscenza.
Se non si interviene su questo, sarà inutile se non dannoso ogni disegno di aumento ulteriore degli spazi di manovra di chi governa le
singole scuole (alla luce del richiamo a un'autonomia verso cui il sistema e il personale non sembrano adeguatamente responsabilizzati). Perché una linea direttiva chiara, e prese di posizione meditate ma nette, e
idee e conseguenti strategie attuative, andrebbero preventivamente espresse sul reclutamento, su un riordino moderno e
finalmente non gentiliano e classista dei cicli e degli
indirizzi di studio, sulle metodologie didattiche, sul rapporto tra
sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico. La positiva fase berlingueriana è stata superata sappiamo come. Forse è giunto il momento di riprenderne lo spirito e ricominciare a interrogare il sistema nel suo complesso. Altrimenti ci si chiederà sempre: ma che avete (abbiamo) in mente di farne di
quest'autonomia, se eludiamo sistematicamente qualsiasi forma di
pensiero responsabile su un pur vago perfettibile modello di scuola
del futuro, e su un senso da costruire attorno al rapporto tra
processi cognitivi e cambiamenti sociali?
Piero Calamandrei |
Il progetto di revisione del titolo V sbandierato dal nuovo presidente del consiglio, e indirizzato, dice lui, a ricentralizzare i criteri di decisione, o quantomeno a far sì che dallo Stato centrale vengano finalmente degli indirizzi chiari di autentico assennato e attuabile governo della res publica, si deve pensare che non valga per il sistema dell'istruzione e della ricerca? Proprio per quello? Si sono confrontati, o almeno parlati, nel merito del loro lavoro e delle scelte che li attendono, il premier e il nuovo ministro?
Mi ricordo
le parole di Renzi sulla scuola e gli insegnanti. Tutto si tramuta presto in pochezza, soprattutto negli scenari politici odierni, finché analisi (anche piuttosto vaghe e quindi genericamente condivisibili) non divengono fatti.