Lascerei
la scuola a settembre perché non ne posso più delle graduatorie,
del precariato e dei lamenti sul precariato. Dei tagli di ogni anno.
Della rassegna insensata delle convocazioni. E di chi commenta: “è
la gavetta, ci siamo passati tutti”. Ma dove, perché? Il mio
sbigottimento, di anno in anno, di fronte a questo sistema, al modo
come è gestito, diventa umore nero, nerissimo.
Lascerei
la scuola a settembre per non sentire più parlare di "progetti" al
collegio docenti e vedere colleghi (?) accapigliarsi per qualche
euro. Per non sentire più la cantilena dei presidi-burocrati interessati solo a aumentare gli iscritti dei loro istituti, alla stessa maniera e con criteri simili a quelli di chi deve ottimizzare la produzione di fustini di detersivo o di scatolette di tonno. Per non subire, da precario, la solita mafietta dell'orario. Lascerei la scuola a settembre perché mi atterisce il pensiero di decine di ore di riunioni inutili dove non si parla mai di contenuti culturali, di metodologie, di formazione.
Lascerei
la scuola a settembre perché è il momento che i miei limiti si
fanno più ingestibili. Perché mi sento mortificato e mi incazzo per
come ci trattano. Perché è il mese in cui si manifesta che
l'insegnante in Italia è un lavoro troppo poco qualificato. Perché
sarà sempre peggio e sarò sempre peggio anche io. Che non trovo
più riscontro al mio credere in una istituzione pubblica laica
democratica. Perché non vedo impegno a favore del merito della
selezione della responsabilità. Me ne andrei sotto un impulso
integralista e giovanilista.
Che
bello che sarebbe: Fuori dal diplomificio / Fuori dallo
stipendificio.
Così com'è, nella scuola pubblica italiana c'è troppo spreco di risorse. Stanco baluardo di un modello educativo al ribasso, acritico, burocratico, classista, falsamente buonista e al fondo punitivo. Che non mira al dialogo. Che non si interroga sul cambiamento. Reazionario al di là della volontà di chi vi opera. Rispetto al quale soprattutto i nuovi media hanno ormai instaurato un flusso di informazioni e cultura molto più interessante e efficace a costi infinitamente minori.
Così com'è, nella scuola pubblica italiana c'è troppo spreco di risorse. Stanco baluardo di un modello educativo al ribasso, acritico, burocratico, classista, falsamente buonista e al fondo punitivo. Che non mira al dialogo. Che non si interroga sul cambiamento. Reazionario al di là della volontà di chi vi opera. Rispetto al quale soprattutto i nuovi media hanno ormai instaurato un flusso di informazioni e cultura molto più interessante e efficace a costi infinitamente minori.
Quella che lascio è una scuola sfinita dalla mancanza di autorevolezza. Un'istituzione blandamente adagiata sul mainstream becero della professionalizzazione come solo obiettivo in vista di un mercato del lavoro sempre peggiore, e sempre più subito acriticamente. Lo si vada a dire, in qualche riunione collegiale o agli uffici del ministero, che la scuola non forma solo tecnici o esperti di qualsivoglia campo, e che la somma di tutte le competetenze è innanzitutto strumento per educare dei cittadini, che poi votano, e che devono discernere i propri diritti, e sapere costruire lo spazio del loro esercizio. Si veda la faccia dei colleghi!
Insisto
sulla parola istituzione perché vi è designata una forma, il
cui statuto viene determinato non poco dalla considerazione che
essa ha di se stessa.
E
veniamo al punto: a quello attuale così debole di certo
contribuiscono fattori di natura congiunturale, ma insieme a altri di
origine endogena che pure potrebbero venire affrontati e che invece
si finge disonestamente e colpevolmente di non vedere.
Ne
isolo uno fondamentale, che è il nucleo da cui nasce la mia
riflessione e attorno al quale si condensa la mia delusione. La scuola
come tutte è un'istituzione fatta di persone, ma che ha rinunciato
da tempo, non solo a provare a migliorare, ma perfino a interrogarsi
sul modo attraverso il quale è avvenuto avviene e avverrà (?) il
reclutamento di coloro che vi lavorano. Una cattivissima china
che ha finito per generare nient'altro che chiusure
preconcette e perniciose incrostazioni lobbistiche. E un
progetto culturale sbiadito e inverificabile, causa di una
perdita contestuale di autostima e capacità analitica, e di
rispetto e considerazione da parte degli alunni. Che, in larga parte
incolpevoli, vengono imbrigliati loro malgrado tra incomprensibili
arretratezze rigidità e banalità metodologiche e
di contenuti. Cosa per cui varrebbe la pena parlare loro senza
infingimenti: e dire a chiare lettere
che verranno sempre giudicati da chi invece pretende di non esserlo
mai. Da chi stancamente magari per anni si trascina dietro un
bagaglio sempre più leggero di conoscenze, senza che lo
sfiori mai il dubbio di metterle e mettersi realmente in
discussione, e senza che nessuno lo obblighi a interrogarsi sul modo
attraverso il quale attivarne la trasmissione.
Certo,
si può convenire che insegnare sia un lavoro empirico quant'altri
mai, nel quale alla lunga risulta di non poco conto anche il peso
dell'esperienza che col tempo si matura. Ma è in virtù di ciò
che andrebbe fatto fare a chi dimostri continuatamente di esserne
in grado, e andrebbe vieppiù monitorato, confrontati i suoi
risultati, discusso e organizzato con cura, senso critico, con la
messa a punto di condivisi criteri di valutazione (ma pur sempre
tali). Invece questo avviene solo sul piano burocratico, l'unico
richiesto, il solo che conta. Per il resto, come al solito, tutto è
lasciato all'arbitrio del singolo, alla buona volontà, al caso.
Ovvero alla strada per cui si ottiene (si persegue?) la
standardizzazione verso il basso, la mediocrità come valore
costitutivo, la rassegnazione e il disimpegno qualunquista, il
famigerato minimo sindacale garantito (di salario, di impegno, di ore
di lavoro, di controllo, di qualità) purché non ne scaturiscano
complicazioni.
L'analisi storica delle cause del pressapochismo da parte dello Stato nella scelta
degli aspiranti insegnanti lascia per quel che mi riguarda il
tempo che trova. Sebbene tutt'altro che contrastate siano
state prassi abiette quali concorsoni, abilitazioni riservate,
graduatorie a punti come la tessera fedeltà del supermercato (il
caos odierno viene da parecchio lontano). È in ogni caso il
prosieguo indolente delle carriere a sbalordirmi ancora di più. Così
come mi nausea l'ostinata evasione dalla propria natura peculiarmente
problematica non di semplice apparato amministrativo che la scuola
finisce per coltivare.
Può
bastare il mero provare ogni giorno a superare il rancore critico
fine a se stesso e farne energia fattiva? Vedo tanti alle prese con
gli stessi pensieri che provano a venirne a capo. Ma è troppo forte
il rischio di scivolare dentro una posizione difensiva e retriva.
Tra
l'altro, io dico che lascerei la scuola a settembre. Vabbè, tanto prima o poi comunque finirei per non servire più. Molti precari non vedono riconfermato il proprio posto,
così, senza una regola, senza una motivazione plausibile. E siamo tutti, noi e i nostri alunni, beatamente indolenti (venalmente calcolatori) nei confronti di un modo di farci amministrare che è privo di senso e indegno. Qualcuno ci aveva
illuso che ci fosse ancora spazio per tutti. Ma non era così, e non lo sarà più. E poi, sarebbe davvero stato giusto? E a quali
condizioni?
Non
mi interessa la scuola se si adagia nel ruolo di balia impropria e
tappabuchi. Non intendo partecipare allo sterile rimpallo di
responsabilità con l'esterno, con la politica, col fantomatico
ministero. E non mi rassegnerò al cinismo e all'indolenza. Né a
farli passare di generazione in generazione.
Una
nozione è dinamica solo se include la propria espansione e
approfondimento: imparare un po' di storia ha senso solo se si
proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica.
P.
P. Pasolini, “Aboliamo la tv e la scuola dell'obbligo”, 1975. http://www.corriere.it/speciali/pasolini/scuola.html