mercoledì 12 novembre 2014

Piano e futuro per la scuola. Un commento critico

Ha affermato Marc Augé che l’unica utopia che l’umanità possa utilmente e legittimamente coltivare per il prossimo futuro è quella dell’educazione. Gli intricati processi in cui la nostra civiltà è immersa ci incalzano. L’obbligo alla continua elaborazione e trasmissione di strumenti di governo dei cambiamenti che incombono sulla testa di ciascuno di noi va asservito più che mai con convinzione condivisa. Pena il dissolversi della tensione democratica all’interno delle nostre società, ovvero di ciò per cui il percorso di vita di ciascun individuo, provando a parteciparsi consapevolmente di ciò che gli accade intorno, lo riscatta dalla marginalità e dalla soccombenza e gli permette la critica la scelta l’azione. In una prospettiva liberale è per questo, grossomodo, che gli stati nazionali tengono in piedi i complessi e costosi sistemi dell’istruzione formazione e ricerca scientifica. E per questo essi dovrebbero vigilare che organizzazione e funzionamento dei medesimi si trovino sempre incardinati attorno a questo criterio di assoluto protagonismo della loro funzione di praticantato per la messa in opera e lo sviluppo della prassi democratica. Un vaglio problematico e faticoso che si struttura a partire dall'onesta responsabilità individuale di chi agisce nel sistema educativo. E che nello specifico della situazione italiana è rendicontato con amara lucidità da Marco Lodoli (M. Lodoli, Il disincanto degli studenti) quando fotografa la rassegnata irresponsabilità "esistenziale" degli alunni nei confronti del loro stesso percorso di formazione e la conseguente mancata consapevolezza di potere servirsi dell’esperienza scolastica come canale di mobilità sociale. Un atteggiamento diffuso, penetrato ormai in forma di scoramento nel tessuto sociale delle nuove generazioni, anche nei ceti medi, che qualunque insegnante in questi anni ha potuto constatare (soprattutto nell’istruzione secondaria) e che si è accompagnato finora alla totale assenza di risposte sistemiche adeguate. Eppure proprio nel fallimento di questo circolo risiede il più grosso fattore di criticità. Ed è sulla base della qualità dell’intervento in merito a ciò, che va valutato qualsiasi progetto di riforma che venga dalla politica. Anche il piano pubblicato di recente dal governo. Al quale va però anzitutto ascritto quantomeno il merito di provare a articolarsi sulla base di un disegno complessivo, così come annunciato al momento dell’insediamento.
A scorrerlo, e si vedrà poi come e in che misura esso troverà attuazione, emerge però ancora e sempre la fumosità delle proposte in merito ai rapporti col mondo del lavoro e soprattutto all’autonomia delle istituzioni scolastiche. È un nodo questo, mai dibattutto abbastanza, che concettualmente, nella legislazione e nelle discussioni degli ultimi anni, è rimasto irrisolto, e su cui si confermano tutte le riserve e perplessità già altrove espresse (L'autonomia per cosa?). Quanto utile è ancora (e quanto giusta? quanto liberale?) la partizione tra istruzione secondaria professionale tecnica e liceale? Perché, se l’obbligo scolastico è a 16 anni, un ciclo di istruzione che preveda lo stesso percorso per tutti i discenti non termina a quella età? Senza soluzioni a questi problemi, non si vede l'utilità ma solo il danno, constatabile ormai con mano, di un’autonomia degenerata a competizione tra istituzioni scolastiche tutte ugualmente statali, teoricamente allineate a standard comuni, che piuttosto che mettersi in rete e diversificare le offerte badano a contendersi reciprocamente gli iscritti con criteri spesso più che discutibili. Anche il modello di governance manageriale disegnato (ma in realtà già in fase di avanzata sebbene subdola applicazione) andrebbe invece fatto virare, e questa sì che sarebbe una battaglia possibile, verso finalmente la scelta del preside elettivo. Sarebbe un bel fattore di responsabilizzazione del corpo insegnante ottenuto con metodo democraticamente competitivo. Direzione in cui peraltro si muovono il tardivo e ormai inderogabile disinnesco del pernicioso meccanismo del precariato delle supplenze e delle graduatorie, che incalcolabili danni ha prodotto allo status istituzionale del sistema educativo italiano soprattutto negli ultimi due decenni, e il ripristino della previsione costituzionale dei concorsi per il reclutamento contestualmente a una sburocratizzazione in chiave meritocratica delle carriere.
Questo non consentirà al sistema di sottrarsi allo logica da azzeccagarbugli da apparato usata strategicamente per decenni da chi lo ha considerato e spinto verso un'amministrazione funzionale principalmente alla gestione lobbistica. E altri pericoli, oltre quelli di sempre, si profilano. Però è già qualcosa. 



domenica 23 febbraio 2014

L'autonomia per cosa? Chi governa il MIUR?

Cito Panebianco dal Corriere di oggi, perché la sua riflessione sulla defenestrazione di Bonino dal ministero degli Esteri vale in realtà in modo drammaticamente uguale per tutti gli altri dicasteri:
«Soprattutto, quella sostituzione rivela una grave e preoccupante sottovalutazione, da parte di Renzi, del rapporto fra politica e burocrazia. Se puoi disporre di un ministro degli Esteri di vasta e vera competenza, ma al suo posto metti una persona, magari eccellente, ma non altrettanto esperta, vuol dire che stai deliberatamente consegnando la guida politica del ministero alla burocrazia del medesimo. Per un bel po’ saranno gli alti gradi della Farnesina, non il ministro, a decidere su tutti i dossier aperti». Ancora: «E c’è, infine, il problema dei problemi: la burocrazia. Se non si sottomette il pachiderma, se non gli si fa capire chi comanda, nessuna innovazione è possibile. E il pachiderma è da tanto tempo abituato a schiacciare con le sue zampe chiunque si faccia venire la bizzarra idea di comandarlo. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi (Corriere del 21 febbraio), o si impongono cambiamenti nell’alta dirigenza dei ministeri o il fallimento del governo è garantito» (paneibanco-renzi-velocista-pachiderma).

Utilizzo il medesimo paradigma per la situazione del Miur: 
lo statuto e il profilo debole ai limiti dell'inconsistenza dei ministri che si sono susseguiti (Gelmini docet, ma la lista da Moratti in poi è a dir poco imbarazzante) sembra rispondere a un criterio di selezione il cui solo scopo sia impedire la possibilità che una qualsiasi visione, che sia culturale e non di mera becera ottimizzazione economica, possa essere non dico strutturata, ma finanche concepita. Il problema non è capire se esista un progetto del PD sull'istruzione e sulla ricerca (quello della destra italiana clericofascista e delle élite economiche è sempre stato piuttosto esplicito), quanto invece rendersi conto che niente potrà essere realizzato di decente in termini di innovazione, funzionalità e aumento del tasso di democrazia e merito delle istituzioni scolastiche e accademiche, finché chi assume responsabilità di governo non sia riconoscibile come qualcuno dotato di una concezione complessiva sul ruolo del sapere e sul modo della trasmissione di esso da una generazione all'altra. Che sia in grado di spiegarlo e farlo condividere, quindi di tracciare il percorso, punto per punto, che intende seguire per realizzarlo. E che conosca i vari dossier, sappia mettere ordine in e tra essi, e assuma la responsabilità di un cambiamento non episodico né dettato dall'esterno (riforma Gelmini, concorsone una tantum Profumo, ma anche le strampalate dichiarazioni di Carrozza “scuolachevorrei” sulla restituzione degli aumenti).
In mancanza di questo, al Miur come ovunque, finisce per prevalere una metodologia di governo con l'obiettivo pressoché unico di mediare con i tecnocrati del Mef (solo interesse: tagliare risorse) il modo della prosecuzione del sistema attuale e quindi delle sue reti di gestione, a cui va ascritta quell'indistricabile continua produzione di una messe di normative circolari direttive, che ingolfano la vita delle scuole e delle università, e obbligano docenti e ricercatori e alunni a burocratizzarsi e burocratizzare il loro lavoro, ovvero a asservirsi a un sistema che tutto è, fuorché struttura di tensione democratica, di partecipazione, di messa in circolo della conoscenza.

Piero Calamandrei
Se non si interviene su questo, sarà inutile se non dannoso ogni disegno di aumento ulteriore degli spazi di manovra di chi governa le singole scuole (alla luce del richiamo a un'autonomia verso cui il sistema e il personale non sembrano adeguatamente responsabilizzati). Perché una linea direttiva chiara, e prese di posizione meditate ma nette, e idee e conseguenti strategie attuative, andrebbero preventivamente espresse sul reclutamento, su un riordino moderno e finalmente non gentiliano e classista dei cicli e degli indirizzi di studio, sulle metodologie didattiche, sul rapporto tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico. La positiva fase berlingueriana è stata superata sappiamo come. Forse è giunto il momento di riprenderne lo spirito e ricominciare a interrogare il sistema nel suo complesso. Altrimenti ci si chiederà sempre: ma che avete (abbiamo) in mente di farne di quest'autonomia, se eludiamo sistematicamente qualsiasi forma di pensiero responsabile su un pur vago perfettibile modello di scuola del futuro, e su un senso da costruire attorno al rapporto tra processi cognitivi e cambiamenti sociali? 
Il progetto di revisione del titolo V sbandierato dal nuovo presidente del consiglio, e indirizzato, dice lui, a ricentralizzare i criteri di decisione, o quantomeno a far sì che dallo Stato centrale vengano finalmente degli indirizzi chiari di autentico assennato e attuabile governo della res publica, si deve pensare che non valga per il sistema dell'istruzione e della ricerca? Proprio per quello? Si sono confrontati, o almeno parlati, nel merito del loro lavoro e delle scelte che li attendono, il premier e il nuovo ministro?
Mi ricordo le parole di Renzi sulla scuola e gli insegnanti. Tutto si tramuta presto in pochezza, soprattutto negli scenari politici odierni, finché analisi (anche piuttosto vaghe e quindi genericamente condivisibili) non divengono fatti.

giovedì 2 gennaio 2014

Tra norma e ricerca: come (non) funziona il discorso sui beni culturali in Italia.



Il concetto di bene culturale è in costante trasformazione da decenni. Averne consapevolezza significa porsi una serie di interrogativi che investono direttamente aspetti fondamentali della vita delle popolazioni, dell'assetto dei territori, delle finalità dell'intervento pubblico. Si tratta di un passaggio decisivo e inderogabile per scrutare le prospettive di un settore, quello legato al patrimonio culturale, che oggi più di ieri presenta aspetti di forte criticità, e un ambito di studio a dir poco composito. All'interno del quale lo stesso progresso della strumentazione legislativa non può non venire riferito all'evoluzione della disciplina, al campo semantico della sua definizione, alle innovazioni metodologiche, e al valore normativo che inevitabilmente finisce per scaturirne. Dal punto di vista dei mezzi e degli obiettivi sia di studio e ricerca, sia di elaborazione di progetti e prospettive di governo e di intervento, nel settore dei beni culturali l'aspetto delle definizioni vincola e condiziona l'orizzonte delle scelte. Di questo connubio quasi mai si tiene conto, né se ne valutano, cercando di prevederle, le conseguenze.
Il testo della Convenzione di Faro (2005) ratificato dall'Italia nel febbraio '13, recependo la definizione anglosassone di “eredità culturale”, e collegandola a quella di “comunità”, introduce un significativo mutamento terminologico rispetto alle formulazioni presenti nel vigente Codice dei Beni Culturali. Da questo aggiornamento, che a ben guardare è un ampliamento non irrilevante della prospettiva, potrebbero (e dovrebbero) in un futuro si spera non tanto remoto discendere non marginali revisioni giuridiche e normative. Le quali andrebbero a intervenire nell'ordinamento a distanza di molto tempo da quando la dicitura “bene culturale” vi è penetrata negli anni '60, tra l'altro ambiguamente perché non in una norma ma nelle dichiarazioni di una commissione parlamentare (e solo dal 2004 anni recepita nel testo del Codice).
Ma, dopo cinquant'anni, cosa ne è del lascito di quello che pure all'epoca apparve come un traguardo? Quali gli effetti storicamente da quel momento determinatisi e la loro attuale portata? Non si può non essere critici verso lo stato delle cose, anche nel settore della ricerca accademica, se si cerca la chiave per cogliere le future probabili evoluzioni, nella sfera decisiva del diritto e delle istituzioni, di tutto ciò che è legato al patrimonio e all'eredità culturale. Le parole utilizzate disciplinano e indirizzano le azioni che vengono realizzate, e l'individuazione e la verifica dei risultati che se ne aspettano. Si tratta nella fattispecie di politica, o di politiche, che vivono però dentro una dimensione comprensiva, di reciproco condizionamento, col settore della produzione scientifica e analitica. Ciò che questa continuamente espone e aggiorna si riverbera, senza soluzione di continuità, sul modo attraverso il quale socialmente la materia di cui essa si occupa viene recepita.
Proprio in tale zona di scambio, in questo snodo, risiede nel nostro paese uno dei fattori più faticosi, difficili, di maggiore problematicità e opacità, tra quelli che intervengono nella costruzione dello statuto specifico della disciplina che studia i beni culturali. Questa, in tutte le sue articolazioni, ragiona e si interroga intorno a materiali i quali, occupando fisicamente uno spazio, costituiscono ipso facto delle persistenze volumetrico/territoriali, inserite a pieno titolo dentro le dinamiche sociali, e di fatto sottoposte a un continuo riposizionamento e mutamento delle loro condizioni di esperienza. Ovvero a una continuo mutamento delle stesse possibilità di comprensione dei significati originari o ulteriori di ogni singolo bene, e del valore non solo testimoniale dell'intera rete dei beni sul territorio. A ben guardare, però, non può non notarsi come proprio la valutazione delle implicazioni derivanti da questa precondizione, che dovrebbe essere comune ai vari settori che si occupano di beni culturali, e che attiene alla natura stessa dell'oggetto di studio, venga spesso fraintesa, laddove non disattesa, o comunque non del tutto tenuta in considerazione. La principale conseguenza del mancato radicamento di questa cognizione, dagli esiti così compositi, attiene direttamente alla rilevanza anche mediatica del dibattito, alla sua efficacia, e alla qualità generale delle argomentazioni che vengono utilizzate quando si analizza il sistema dei beni culturali. Da qui deriva, con ogni evidenza, quella sorta di scollamento tra il linguaggio con cui si realizza il discorso sui beni culturali e gli attori sociali che dovrebbero recepirne gli aspetti, anche quelli emergenziali, che si tenta di evidenziare.
La soglia di tale passaggio da una dimensione all'altra del linguaggio sui beni culturali, delle modalità della sua concretizzazione, dovrebbe essere (e non è) il territorio di una semina inesausta per provare a rifondare i presupposti di un discorso che rischia continuamente di farsi esaurire in termini esclusivi o di retorica, o di codice iniziatico. Dal momento che il valore sociale di ciò che tramite esso viene esaminato, essendo incancellabile, risulta inevitabilmente e pericolosamente minato e compromesso da un processo di impoverimento, di cortocircuito, di mancata interlocuzione e condivisione semantica, pericolosamente in atto ormai da decenni.

C'è necessità di una diversa interrelazione tra l'aspetto terminologico, etimologico, auto-definitorio, delle scienze che studiano i beni culturali, e la produzione normativa e l'assetto istituzionale da cui vengono determinate le scelte politiche in materia di salvaguardia e educazione al patrimonio e all'eredità culturale. Urge una nuova consapevolezza, in questo senso del tutto politica, finalmente scevra dalle «costrizioni materiali e morali di un paesaggio culturale ad uso esclusivo di vieti stati d'animo turistici» (Pasquale Prunas, editoriale di apertura del primo numero di Sud, 1945).
Un processo di revisione fattuale, ostile alle formule delle più sedimentate e interessate burocrazie cognitive, non potrà mai avere vita facile perché in esso è contenuta una ineliminabile carica anti-sistemica. Ma proprio questo, per chi intende lavorare con onestà di senso critico attorno ai beni culturali, si staglia come l'indifferibile orizzonte di senso del proprio operare.