martedì 3 settembre 2013

Lasciare la scuola a settembre. Precariato, reclutamento, cittadinanza.

Lascerei la scuola a settembre perché non ne posso più delle graduatorie, del precariato e dei lamenti sul precariato. Dei tagli di ogni anno. Della rassegna insensata delle convocazioni. E di chi commenta: “è la gavetta, ci siamo passati tutti”. Ma dove, perché? Il mio sbigottimento, di anno in anno, di fronte a questo sistema, al modo come è gestito, diventa umore nero, nerissimo.
Lascerei la scuola a settembre per non sentire più parlare di "progetti" al collegio docenti e vedere colleghi (?) accapigliarsi per qualche euro. Per non sentire più la cantilena dei presidi-burocrati interessati solo a aumentare gli iscritti dei loro istituti, alla stessa maniera e con criteri simili a quelli di chi deve ottimizzare la produzione di fustini di detersivo o di scatolette di tonno. Per non subire, da precario, la solita mafietta dell'orario. Lascerei la scuola a settembre perché mi atterisce il pensiero di decine di ore di riunioni inutili dove non si parla mai di contenuti culturali, di metodologie, di formazione.
Lascerei la scuola a settembre perché è il momento che i miei limiti si fanno più ingestibili. Perché mi sento mortificato e mi incazzo per come ci trattano. Perché è il mese in cui si manifesta che l'insegnante in Italia è un lavoro troppo poco qualificato. Perché sarà sempre peggio e sarò sempre peggio anche io. Che non trovo più riscontro al mio credere in una istituzione pubblica laica democratica. Perché non vedo impegno a favore del merito della selezione della responsabilità. Me ne andrei sotto un impulso integralista e giovanilista.
Che bello che sarebbe: Fuori dal diplomificio / Fuori dallo stipendificio. 
Così com'è, nella scuola pubblica italiana c'è troppo spreco di risorse. Stanco baluardo di un modello educativo al ribasso, acritico, burocratico, classista, falsamente buonista e al fondo punitivo. Che non mira al dialogo. Che non si interroga sul cambiamento. Reazionario al di là della volontà di chi vi opera. Rispetto al quale soprattutto i nuovi media hanno ormai instaurato un flusso di informazioni e cultura molto più interessante e efficace a costi infinitamente minori. 
 

Quella che lascio è una scuola sfinita dalla mancanza di autorevolezza. Un'istituzione blandamente adagiata sul mainstream becero della professionalizzazione come solo obiettivo in vista di un mercato del lavoro sempre peggiore, e sempre più subito acriticamente. Lo si vada a dire, in qualche riunione collegiale o agli uffici del ministero, che la scuola non forma solo tecnici o esperti di qualsivoglia campo, e che la somma di tutte le competetenze è innanzitutto strumento per educare dei cittadini, che poi votano, e che devono discernere i propri diritti, e sapere costruire lo spazio del loro esercizio. Si veda la faccia dei colleghi!
Insisto sulla parola istituzione perché vi è designata una forma, il cui statuto viene determinato non poco dalla considerazione che essa ha di se stessa.
E veniamo al punto: a quello attuale così debole di certo contribuiscono fattori di natura congiunturale, ma insieme a altri di origine endogena che pure potrebbero venire affrontati e che invece si finge disonestamente e colpevolmente di non vedere.
Ne isolo uno fondamentale, che è il nucleo da cui nasce la mia riflessione e attorno al quale si condensa la mia delusione. La scuola come tutte è un'istituzione fatta di persone, ma che ha rinunciato da tempo, non solo a provare a migliorare, ma perfino a interrogarsi sul modo attraverso il quale è avvenuto avviene e avverrà (?) il reclutamento di coloro che vi lavorano. Una cattivissima china che ha finito per generare nient'altro che chiusure preconcette e perniciose incrostazioni lobbistiche. E un progetto culturale sbiadito e inverificabile, causa di una perdita contestuale di autostima e capacità analitica, e di rispetto e considerazione da parte degli alunni. Che, in larga parte incolpevoli, vengono imbrigliati loro malgrado tra incomprensibili arretratezze rigidità e banalità metodologiche e di contenuti. Cosa per cui varrebbe la pena parlare loro senza infingimenti: e dire a chiare lettere che verranno sempre giudicati da chi invece pretende di non esserlo mai. Da chi stancamente magari per anni si trascina dietro un bagaglio sempre più leggero di conoscenze, senza che lo sfiori mai il dubbio di metterle e mettersi realmente in discussione, e senza che nessuno lo obblighi a interrogarsi sul modo attraverso il quale attivarne la trasmissione.
Certo, si può convenire che insegnare sia un lavoro empirico quant'altri mai, nel quale alla lunga risulta di non poco conto anche il peso dell'esperienza che col tempo si matura. Ma è in virtù di ciò che andrebbe fatto fare a chi dimostri continuatamente di esserne in grado, e andrebbe vieppiù monitorato, confrontati i suoi risultati, discusso e organizzato con cura, senso critico, con la messa a punto di condivisi criteri di valutazione (ma pur sempre tali). Invece questo avviene solo sul piano burocratico, l'unico richiesto, il solo che conta. Per il resto, come al solito, tutto è lasciato all'arbitrio del singolo, alla buona volontà, al caso. Ovvero alla strada per cui si ottiene (si persegue?) la standardizzazione verso il basso, la mediocrità come valore costitutivo, la rassegnazione e il disimpegno qualunquista, il famigerato minimo sindacale garantito (di salario, di impegno, di ore di lavoro, di controllo, di qualità) purché non ne scaturiscano complicazioni.
L'analisi storica delle cause del pressapochismo da parte dello Stato nella scelta degli aspiranti insegnanti lascia per quel che mi riguarda il tempo che trova. Sebbene tutt'altro che contrastate siano state prassi abiette quali concorsoni, abilitazioni riservate, graduatorie a punti come la tessera fedeltà del supermercato (il caos odierno viene da parecchio lontano). È in ogni caso il prosieguo indolente delle carriere a sbalordirmi ancora di più. Così come mi nausea l'ostinata evasione dalla propria natura peculiarmente problematica non di semplice apparato amministrativo che la scuola finisce per coltivare.
Può bastare il mero provare ogni giorno a superare il rancore critico fine a se stesso e farne energia fattiva? Vedo tanti alle prese con gli stessi pensieri che provano a venirne a capo. Ma è troppo forte il rischio di scivolare dentro una posizione difensiva e retriva.
Tra l'altro, io dico che lascerei la scuola a settembre. Vabbè, tanto prima o poi comunque finirei per non servire più. Molti precari non vedono riconfermato il proprio posto, così, senza una regola, senza una motivazione plausibile. E siamo tutti, noi e i nostri alunni, beatamente indolenti (venalmente calcolatori) nei confronti di un modo di farci amministrare che è privo di senso e indegno. Qualcuno ci aveva illuso che ci fosse ancora spazio per tutti. Ma non era così, e non lo sarà più. E poi, sarebbe davvero stato giusto? E a quali condizioni?
Non mi interessa la scuola se si adagia nel ruolo di balia impropria e tappabuchi. Non intendo partecipare allo sterile rimpallo di responsabilità con l'esterno, con la politica, col fantomatico ministero. E non mi rassegnerò al cinismo e all'indolenza. Né a farli passare di generazione in generazione.

Una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po' di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica.
P. P. Pasolini, “Aboliamo la tv e la scuola dell'obbligo”, 1975. http://www.corriere.it/speciali/pasolini/scuola.html

 

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