Ha affermato Marc Augé che
l’unica utopia che l’umanità possa utilmente e legittimamente coltivare per il
prossimo futuro è quella dell’educazione. Gli intricati processi in cui la
nostra civiltà è immersa ci incalzano. L’obbligo alla continua elaborazione e
trasmissione di strumenti di governo dei cambiamenti che incombono sulla testa
di ciascuno di noi va asservito più che mai con convinzione condivisa. Pena il
dissolversi della tensione democratica all’interno delle nostre società, ovvero
di ciò per cui il percorso di vita di ciascun individuo, provando a parteciparsi
consapevolmente di ciò che gli accade intorno, lo riscatta dalla marginalità e
dalla soccombenza e gli permette la critica la scelta l’azione. In una prospettiva liberale è per questo,
grossomodo, che gli stati nazionali tengono in piedi i complessi e costosi sistemi dell’istruzione
formazione e ricerca scientifica. E per questo essi dovrebbero vigilare che organizzazione
e funzionamento dei medesimi si trovino sempre incardinati attorno a questo
criterio di assoluto protagonismo della loro funzione di praticantato per la
messa in opera e lo sviluppo della prassi democratica. Un vaglio problematico e
faticoso che si struttura a partire dall'onesta responsabilità
individuale di chi agisce nel sistema educativo. E che nello specifico della
situazione italiana è rendicontato con amara lucidità da Marco Lodoli
(M. Lodoli, Il disincanto degli studenti) quando fotografa la rassegnata irresponsabilità "esistenziale" degli alunni nei confronti del loro
stesso percorso di formazione e la conseguente mancata consapevolezza di potere
servirsi dell’esperienza scolastica come canale di mobilità sociale. Un
atteggiamento diffuso, penetrato ormai in forma di scoramento nel tessuto sociale
delle nuove generazioni, anche nei ceti medi, che qualunque insegnante in questi anni ha potuto
constatare (soprattutto nell’istruzione secondaria) e che si è accompagnato
finora alla totale assenza di risposte sistemiche adeguate. Eppure proprio nel fallimento di questo circolo risiede
il più grosso fattore di criticità. Ed è sulla base della qualità
dell’intervento in merito a ciò, che va valutato qualsiasi progetto di riforma
che venga dalla politica. Anche il piano pubblicato di recente dal governo. Al
quale va però anzitutto ascritto quantomeno il merito di provare a articolarsi sulla base di un
disegno complessivo, così come annunciato al momento dell’insediamento.
A scorrerlo, e si vedrà poi come
e in che misura esso troverà attuazione, emerge però ancora e sempre la fumosità delle
proposte in merito ai rapporti col mondo del lavoro e soprattutto all’autonomia
delle istituzioni scolastiche. È un nodo questo, mai dibattutto abbastanza, che concettualmente, nella legislazione e nelle discussioni degli ultimi anni, è
rimasto irrisolto, e su cui si confermano tutte le riserve e perplessità già
altrove espresse (L'autonomia per cosa?). Quanto utile è ancora (e quanto giusta? quanto liberale?) la
partizione tra istruzione secondaria professionale tecnica e liceale? Perché,
se l’obbligo scolastico è a 16 anni, un ciclo di istruzione che preveda lo stesso percorso per tutti i discenti non termina a quella età? Senza soluzioni a questi
problemi, non si vede l'utilità ma solo il danno, constatabile ormai con mano, di un’autonomia degenerata a competizione tra
istituzioni scolastiche tutte ugualmente statali,
teoricamente allineate a standard comuni, che piuttosto che mettersi in rete e diversificare le offerte badano a contendersi
reciprocamente gli iscritti con criteri
spesso più che discutibili. Anche il modello di governance manageriale
disegnato (ma in realtà già in fase di avanzata sebbene subdola
applicazione) andrebbe invece fatto virare, e questa sì che sarebbe una
battaglia possibile, verso finalmente la scelta del preside elettivo.
Sarebbe un bel fattore di responsabilizzazione del corpo insegnante
ottenuto con metodo democraticamente competitivo. Direzione in cui peraltro si muovono il
tardivo e ormai inderogabile disinnesco del pernicioso meccanismo del precariato
delle supplenze e delle graduatorie, che incalcolabili danni ha prodotto allo
status istituzionale del sistema educativo italiano soprattutto negli ultimi
due decenni, e il ripristino della previsione costituzionale dei concorsi per
il reclutamento contestualmente a una sburocratizzazione in chiave meritocratica delle carriere.
Questo non consentirà al sistema di sottrarsi allo logica da azzeccagarbugli da apparato usata strategicamente per decenni da chi lo ha considerato e spinto verso un'amministrazione funzionale principalmente alla gestione lobbistica. E altri pericoli, oltre quelli di sempre, si profilano. Però è già qualcosa.
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